Metropoli di Grenoble: Attacchi coordinati contro antenne-ripetitori per le telecomunicazioni
Ai margini dello sciopero dei lavoratori, istanze di chi un padrone non ce l’ha
In 9 anni di riflessioni sulle crisi liberali di nuovo millennio,
è come se il precariato abbia mancato,
come neo-classe ma anche situazione,
il rifiuto del riformularsi entro il capitalismo stesso
ed insieme la diserzione dai servizi dello Stato.
L’uomo indebitato come si pone nei confronti di questa nuova costituzione?Lontano parente dell’operaio sociale rivoltato nella propria soggettività dalla ristrutturazione dei tardi anni ’70, l’uomo indebitato è anzitutto impresa (di se stesso, come ammoniva la pubblicità).Ogni essere umano ha adottato lo statuto dell’impresa a misura della propria vita. Il progressivo erodersi del welfare ha consentito (obbligato) l’assimilazione a tale forma di riproduzione sociale.L’insorgere dell’uomo impresa rimanda direttamente allo sfruttamento da parte della finanza delle aree industriali dismesse: come queste furono oggetto di operazioni sempre più raffinate, procedendo dalla gestione del territorio in modo mafioso per giungere alle speculazioni finanziarie sui mutui che le gravano. Parimenti, il corpo operaio dismesso, sviò la propria autovalorizzazione.La limitazione conseguente all’assoggettamento alla costituzione dell’impresa, però rende tale lavoro immediatamente produttivo di valore catturabile (e catturato) dal capitale. Da qui, due prime riflessioni:– esiste una costituzione materiale che si può ravvisare nello statuto dell’impresa che annega, nella captazione di valore e nella negazione della vita, la produzione del comune;
– la creazione di ricchezza consegue alla precarizzazione e all’indebitamento dell’uomo impresa.
Le modalità concrete di sfruttamento della vita messa al lavoro impediscono (sono funzionali ad evitare che) la configurazione di istituzioni del comune.Non pare quindi possibile la realizzazione del comune attraverso il recupero di norme (di legge o “consuetudinarie”) che risultano poste proprio al fine dell’assoggettamento della produzione alla legge del valore.Porsi all’interno di un sistema normativo che presuppone l’esistenza di merci e funzionale allo scambio tra proprietari (meglio tra creditori e debitori) comporta l’immediato reciproco riconoscimento, all’interno proprio di quella legge del valore che opprime il comune.Ogni stratagemma che riveli capacità di sottrazione dal rapporto di capitale mediante l’attualizzazione dell’autonomia potenziale della forza lavoro va accolto per procedere verso tale orizzonte.Strutturare l’antagonismo del precariato (imprenditore del proprio nulla) verso la disponibilità degli strumenti “d’impresa” e delle relative norme che li disciplinano appare unica via verso questa transizione (che peraltro, proprio per la configurazione delle modalità attuale di sfruttamento appare già in atto).Predicare il diritto all’insolvenza, l’ammissione ai benefici delle procedure concorsuali anche per i microimprenditori, imporre moratorie sul debito di studenti e precari, è da un lato comprensione della produzione diretta di ricchezza da parte delle singolarità, dall’altro -consentendo autonomia e autovalorizzazione delle stesse- mina il procedimento appropriativo e di riconducibilità della vita al capitale e con esso lo stesso statuto dell’impresa.La ributtante negazione di sé che fu il farsi impresa non è stata rinuncia al desiderio, ma escamotage di sopravvivenza che l’operaio indusse al capitale e non viceversa (pur nello sviamento della potenza operaia).Attraverso questo mezzo persiste (e si impone) la capacità della moltitudine, fondata sul comune, di eccedere i limiti del potere.”[paragrafi estrapolati da http://www.uninomade.org/quale-costituzione-per-luomo-indebitato/, 10.2012]
Questo immaginario non mostrava già il limite materiale in cui il precariato si riconosceva?
Entro cui la rivendicazione insolvente si protendeva come uno sbrocco professionale,
ossia l’unico sbocco di una sopravvivenza dipesa dai blocchi infrastrutturali.
E dove sarebbero i frutti di questa ricerca di post-autonomia
pienamente inscritta nelle prescrizioni culturali di bilanci amministrativi?
Quali gli strumenti di un precario faber,
quali i leit motiv di un precario sapiens,
quali i sogni sottratti al pozzo di un curriculum vitae?
Quali i segni dell’abbozzarsi di un qualche soggetto sociale,
quasi quasi new-proto-rivoluzionario, ma soprattutto anche no?
°
Lo stesso portale uninomade, “movimentatosi” nella crisi delle specializzazioni disciplinari di area umanistica, non si è in fondo dimostrato propriamente un riferimento di poi tanta contestazione degli strumento del lavoro intellettuale, per dire.
Sarà perchè i ruoli istituzionali stessi non vengono nemmeno, ancora, messi in discussione?
Allora diciamolo chiaro.
Data la rinnovata spoliazione dei fasti d’accademia e dai privilegi della ricerca, cosa ci sarebbe potuto essere di emancipativo nel prendersi il caffé progettando di rientrare nel mercato culturale dalla porta sul retro, per giunta come se si trattasse d’insubordinazione?
E quali sarebbero i margini d’autonomia nel fare ciò, se mentre ci si aggrappa all’indignazione e si paventa stupore proprio là dove il liberismo aveva già ampiamente pavimentato le stanze della cultura contemporanea con fissativi di turistificazione e smalti gentry targeting, non si riconosce quanto il proprio futuro resti proiettato entro quegli stessi modelli?
L’autonomia, quella operaista, in Italia, anche da queste sue eredità nepotili e terziarie, confermava di scommettere sulla fideizzazione alla logica sistemica in un’astrazione per la verità troppo più lenta a rendere conto di sé rispetto all’accelarazione dei processi produttivi, tanto che mi pare nessuna autonomia sia mai stata ambita dalla sua propaganda per ciò che l’etimo della parola intenderebbe, di fatto.
Tantomeno entro simili interpretazioni della crisi finanziaria, valutata come incombere dell’incubo dell’austerità, da cui il risveglio di quelle coscienze che si scoprono soporizzate fin dagli standard dei test attitudinali e ingannate dalla baronia che ne seleziona messali, poteva soltanto, a quanto sembrava ripensarsi come necessità di ogni singolx di “essere impresa” da sé e per sé.
O meglio, non soltanto lo poteva, ma per giunta(!), illudendosi, questa pseudo-coscienza riscoperta, che l’atomizzazione subita, la devastazione sociale entro cui questa mantiene chiuso il circolo del precariato, consistesse allo stesso tempo in “escamotage” sulla via di una novella “istituzione comune”… Ma “comune” in che senso, scusassero?
Tutto ciò, nella lotta contro la crisi, si è configurato a mo’ di paradosso integrativo di una grave carenza non già di finanziamenti, ma di conflitto.
Pregno di realpolitik, questo filone polemico stava solo cercando di ritrovare un valore per gli assegni nulli incassati dalla propria proprietà intellettuale.
Non poteva essere avulso dall’appoggio al riformismo,
né rinunciare, così devoto, alla beneficienza partitica..
Perciò, lo si può ben lasciare sulle false barricate.
play it yourself *Jolie Jolly *
***
Ho ripreso a giocare, a giocarmi, a rischiare!
A concedermi di cambiare, che sia in meglio, di male in peggio, o soltanto una variabile
infinitesimale, a volte non so nemmeno io che… ma lascio
a voi l’ardua sentenza, che tanto proseguo,
guai a chi mi trattiene, scommetto tutto su di me!
Non posso attendere mosse che non mi appartengono,
sottostare alla regola fissa, addomesticarmi ad una noiosa partita!
Non sarò poi nata con tutti questi colori, quante sono le mie emozioni,
per appiattirmi nella dipendenza da che qualcosa accada senza
che io possa scegliere di parteciparvi.. o meno!
È tempo per me di saltare oltre la soglia,
nel mondo che mi sembrava negato.
Né delicata bambolina, né burattino, né pedina,
ho imparato a riprendermi i miei attimi quando più mi va!
Si spezzino pure, i fili delle vostre meccaniche manipolazioni!
Sia sincero il pubblico che mi scruta bieco,
con disapprovazione mentre salto in aria
via dal palcoscenico e riscrivo con la dinamite la mia storia:
quanto conta davvero, signore e signori, che io svolga per voi un copione tanto ridotto?
E cosa realizzo del mio io profondo, quando mi vedevo assegnare
una funzione, valore, un punteggio, secondo arbitrari schemi
di competizione? ..Non sarò parentesi tendente allo zero!
Neppure esser trattata da carta vincente, come da consorte regina, serve
a ritrovare un personale, insito, splendore! Rifiuto servigi come di essere serva.
Sono ormai sganciata da queste strategie di simulazione,
non c’è modo di incatenarmi. Né serbo di rimediare
in mio nome ai vostri fallimenti, ancor più furia mi assale!
Corona o cencio mi si voglia affibbiare, c’è sempre ben altro
da sfoggiare, non certo qualche pretestuoso giudizio esteriore e venale!
Non sono mica qui per riconoscere licenza ai vostri succesi, dare corpo a ricatti,
non prona a suggellare con la mia firma un’astratta quota del vostro potere!
E levatevi quelle smorfie esterefatte, suvvia, ho appena iniziato con le presentazioni!
Avverto, non sprecherò il fiato che mi rimane nella rassicurazione di questa tesa fissità in cui vi ho conosciuti.. E in cui vi lascio.
Quando ho sospirato, come ogni essere, per le mie sofferenze,
mi si rispondeva di non avere fretta, di abbassare la testa o di reprimere le troppe curiosità..
E dovrei oggi rasserenare chi sarebbe pronto a gettarmi se questo valesse la sua fortuna?
Non è affar mio, rappresentare la vostra consolazione, né il rendermi un ridicolo sfogo per le vostre mancanze.
Su cosa si punta, in questo piattume?
Che ogni carta rilanci se stessa!
Basta formalità, inchini, applausi, proposte sconvenienti!
Sono stufa di chiudere gli occhi e stringere i denti!
Se è vero che mi toccano sacrifici che non ho scelto,
posso dire che l’obbligo maggior per una società sana non venga mai da lor signor richiesto:
dedicarsi all’ascolto del proprio umore, del proprio sentore.
Mi riapproprio, perciò, del mio corpo disciplinato, privato dell’indipendenza e fatto strumento.
Il rincorrersi dei miei desideri, soltanto,
detterà le regole delle mie giornate!
A quale gioia dovrei rinunciare, dal momento che non potete impedirmi di immaginarla dentro di me?
E quant’è dolce già l’aspettativa di ognuna, che tra ansie e tentennamenti,
porta in gestazione tutte le espressioni della vita che si rinnova? Voglio festeggiarla!
Abbracciando armonie portate dal vento respirando la terra divelta.
Non batto le strade, ma su quelle mi batto
come pelle di tamburo scalpello
rudi frammenti di pietra invecchiata.
E più incontro sofferenza meno faccio caso a quanto sia immensa,
perché immersa, mata nataraj, in un vuoto danzante,
non resta che un ferreo vagabondare
cui sorrido irriverente attraverso il confine, e ancora..
..un’altra cinta muraria che crolla.
Ho scoperto che le qualità non hanno definizione, assegnazione, valore,
ma fioritura. Non “mie” o “sue”, ma giustappunto comunicanti,
ho appreso a seminarle sparse, fuori da ristrette corti,
nei modi di una questua per un’ambulante.
Ho cominciato a pescare ricordi e attese per allenare l’equilibrio
tra singhiozzi rappresi della ragione e cicliche palpitazioni dischiuse.
So finalmente osare, tuffarmi in capriole carpiate,
inarrestabile la mia rabbia, esonda le vostre sbarre,
circensi i miei dubbi, mai dimorato in precetti stringenti.
Itinerante il mio cuore, non più timorato, dischiusosi
tra compagnie di ventura, cullandomi in vortici elastici
e ad uno schiocco di dita definendo il mio orizzonte
all’equilibrio di un trapezio issato su di un precipizio.
Interrogo la mia luna quando la notte si fa piu’ scura..
Vado assemblando note, accordi ricuciti,
un sapere a sonagli, non innoquo perché sinuoso,
che sappia cogliere ogni istante che sussurri libertà.
multiverso.
* Jolie Jolly *
HABITAT #akt1 [cuento punteado] ▲YaRosaNegrA▼
Superato il ponte sulla Dora mi ritrovo immersa in una distesa di scatole e scartoffie, qua e là qualche esile sgabello. Tracce ancora manifeste, come ostinate, sparpagliate lungo le diramazioni pedonali, incrostate ma la cui toponomastica sembra indelebile, dalla storia che ha memoria di sé nei segnali rivendicativi che colorano cigli e saracinesche. Percorsi che…
Cittadinanze irregolari tra gli assiomi di mercato
“Mancano medicinali, siringhe e, in alcuni casi, a causa della mancanza di garze, i pochi addetti hanno dovuto far ricorso persino a della carta igienica per curare ferite”, dichiarano le stesse guardie, aggiungendo che spesso mancano anche i pasti e l’acqua calda, che ci sono blatte ovunque e larve di vermi nel latte, così come si registrano numerosi casi di scabbia, epatite e infezioni dovute alle condizioni in cui le persone sono costrette a vivere.
Non c’è spazio per posizioni differenti, nessun’entità formale che vi abbia messo piede può più negare che il centro di reclusione di Bari Palese, e altrettanto quello di Brindisi Restinco, versi in condizioni pietose. Che quella struttura punitiva, messa a punto dal governo —- per il trasferimento di coloro che in altri centri di detenzione non si sono lasciati ridurre alla prigionia senza ribellarsi, sia di fatto amministrata come un lager fascista.
Nessuna voce delle persone recluse esce da quelle mura, nessun momento di solidarietà ha attivato una comunicazione volta a combattere l’isolamento.
Eppure nel lager di Bari Palese, da sempre considerato una struttura punitiva dove lo stato trasferisce chi lotta in altri centri, che le persone recluse si ribellano frequentemente, danneggiando e provando a evadere.[dal più recente episodio di rivolta nei CPR riportato su https://hurriya.noblogs.org/…/bari-tentata-evasione-dal-cpr/]
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Ieri era l’anniversario di un episodio nel CPT di Trapani, 28 dicembre 1999, in cui morirono 6 persone in un incendio appiccato da una di loro nella cella in cui erano state rinchiuse dopo un tentativo di fuga, cella che non venne deliberatamente aperta dalle guardie di turno, preferendo che divampassero le fiamme sui reclusi piuttosto che il loro tentativo di rivolta avesse qualche esito, “naturalmente” inammissibile per il loro dovere istituzionale.
Una volta che l’esistenza di una persona viene convenzionalmente misconosciuta, sembra decada in automatico la responsabilità di coloro che concorrono alla sua esclusione sociale, dalla negazione dei suoi diritti e della sua dignità di essere senziente alla privazione forzata dei bisogni essenziali alla sua sopravvivenza.
Spingendo ad oltranza l’incunearsi della mentalità del respingimento e la reazione di distacco dalla sofferenza umana e dal dispendio di energie che produce, quanto più quella responsabilità si rende cieca esecutrice della giustizia amministrativa, tanto più perde cognizione del proprio impatto in quanto demandato all’infinito a qualche posizionamento superiore o astratto, meno peso diretto può attribuirsi.
Mentre rifiutate concessioni di umanità di un essere umano perchè non sta scritto sul vostro contratto di lavoro, state misconoscendo per primo la vostra, di umanità. Forse l’avete semplicemente già venduta.
Come potreste allora curarvi di una persona che non può, nemmeno volendo, conformarsi alla vendita di sé per un ritorno economico?
L’identità è una forma primitiva di demarcazione; prima ancora che il merito era presupposto del rivestimento di un ruolo, quindi di un potere, anche qualora fosse un potere soggiogato a determinate regole. Perchè sia possibile un riconoscimento reciproco tra identità socialmente differenti sembra che non si possa fare a meno, convenzionalmente, di affermare uno scambio materiale, di commutare l’essenza in onere lavorativo e potere d’aquisto, o ridurre la cultura a storia delle gesta della propria nazione.
Se all’identità si restituisse un significato esistenziale profondo sarebbero ancora così sensati i tentativi di afferrarla con le impronte o tracciarla geolocalmente, per poi racchiuderla in database amministrativi? Prima del contrattualismo, prima delle anagrafi, prima dei codici, c’è il desiderio delle persone di stare insieme e interagire. Le leggi restrittive rappresentano l’incapacità delle istituzioni di assolvere a un mandato dell’ordinamento politico che anziche comprendere in sé la dinamicità dell’esistente, fissa dei livelli di potere. Lasciarci schiacciare e schiacciare altri attraverso di esse non è solo ben poco umano, è distopico.
A quali mete può approdare una società attraverso la mutilazione degli elementi con cui si rapporta, volente o nolente, e a cui è protesa, sia che li rifiuti sia che li comprenda?
La dislocazione e l’alienazione delle frange di popolazione che “non rendono”, “non sono funzionali” o “non possono accedere” alla pianificazione dello sviluppo economico, questi dettami sempre in auge dell’ordine civile centralizzatore, contro il degrado e per la sicurezza, non servono che a specifiche strategie reazionarie. Queste non portano ad assicurare l’ordine, ma a creare bacini servili, tanto di contribuenti quanto di utenti, vite strumentali alla realizzazione di una prosperità finanziaria tutta tesa a sedare qualsiasi sprone indirizzato all’indipendenza da essa, e che per ingraziarsi il malcontento non ha altro bisogno che di giustificare la propria corruttibilità puntando il dito contro la piccola criminalità.
A chi pensa che la ribellione violenta sia atto di inciviltà io rispondo che il più profondo aspetto di inciviltà è lo sbocco penitenziario della legge, oltre alla sua inevitabile predisposizione all’uso improprio che se ne fa, facilitando l’oppressione di chi non detiene potere sulle proprie condizioni di vita. E chi non ha potere, come può essere giudicato violento, se non contro se stesso, o al fine di una fuoriuscita dal suo stato di minorità?
Quando si sa di non essere nati per essere trattati come oggetti senza valore d’uso, smistati senza riguardo ed immagazzinati per mesi, ritirati dal mercato se giudicati non conformi, la propria dignità non troverebbe ristoro nemmeno nel sostare in un carcere “servito” e godere di inserimento in liste di attesa per la casa e per un’occupazione base.
Si provi a immaginare un momento in cui si voglia ricostruire la propria vita, o proseguirla seguendo una traccia di chi ci è riuscito, ma lo spazio per una possibile ricostruzione e riproposizione di sé viene ricondotto ad una cella ed a elenchi standardizzati.
Possiamo mangiare quello che ci viene offerto, lo scarto del guadagno di chi ce lo offre, ma non cercare da noi il cibo che ci basti. La propria voce viene ammutolita. Se ci proviamo a muovere, riceviamo colpi che ci annichiliscono.
Ogni daspo, ogni decreto o limitazione alla libertà di movimento, ribadendo la proprietà del benessere dei propri cittadini, la paternità dei propri confini, proprio stringendosi su concetti tradizionali del potere amministrativo, rivela il fallimento intrinseco delle misure di controllo in atto e la loro subalternità a determinazioni economiche transnazionali.
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CHIAVI FINANZIARIE DELLA DETENZIONE AMMINISTRATIVA
L’inasprimento di una nazione contro movimenti migratori della cui diffusione ha responsabilità finanziarie e politiche che si protraggono da oltre un secolo attraverso una coltre di asseverazione psicologica della propria cittadinanza ed un conformismo di questa alle novità del mercato, è funzionale quanto potrebbero esserlo delle valanghe lanciate dall’alto di un picco di interesse relativo, per la facilitazione di pochi, specifici, obiettivi, che per mantenersi stabili richiedono un rastrellamento della complessità sociale a valle, delle sue potenzialità. Ogni passo di quest’ultima per l’autodeterminazione costituisce un’ombra di rischio di perdita dell’aura di quei piccoli orchi che giocano a lanciare neve al sole dal parlamento.
Così, mentre “i nostri” ministri e promotori del made in italy collaborano con governi repressivi africani e mediorientali (e questa sì che è una componente razionale e marcatamente progressista del loro posizionamento verticista in collaborazione con imam del business di materie prime e con l’accelerazionismo capitalista cinese, posizionamento che trova in città come Dubai e Shenzen il coronamento “già qui” delle proprie ambizioni ad un potere meccatronico e ultramiliardiario), si può dedicare la propria disperazione agli attentati avvenuti nei nostri luoghi di svago compiuti da cellule terroristiche formatesi nelle nostre prigioni, e insieme sentirsi risoluti ad attribuire questa pericolosità ideologica, che è poi piuttosto randomica, alla tendenza criminale di “stranieri” che si fanno rivoltosi cercando di interrompere una prassi sistemica che li sottopone a condizioni insane di sussistenza, a un controllo cronometrico dell’aria che possono respirare e alla cessione delle proprie capacità di integrazione a uffici il cui personale, spersonalizzato, non oserebbe nemmeno discutere della propria passività in questa filiera di certificazione di uomini.
#CPR #capitale umano #flussi mercantili