Metropoli di Grenoble: Attacchi coordinati contro antenne-ripetitori per le telecomunicazioni
Ai margini dello sciopero dei lavoratori, istanze di chi un padrone non ce l’ha
In 9 anni di riflessioni sulle crisi liberali di nuovo millennio,
è come se il precariato abbia mancato,
come neo-classe ma anche situazione,
il rifiuto del riformularsi entro il capitalismo stesso
ed insieme la diserzione dai servizi dello Stato.
L’uomo indebitato come si pone nei confronti di questa nuova costituzione?Lontano parente dell’operaio sociale rivoltato nella propria soggettività dalla ristrutturazione dei tardi anni ’70, l’uomo indebitato è anzitutto impresa (di se stesso, come ammoniva la pubblicità).Ogni essere umano ha adottato lo statuto dell’impresa a misura della propria vita. Il progressivo erodersi del welfare ha consentito (obbligato) l’assimilazione a tale forma di riproduzione sociale.L’insorgere dell’uomo impresa rimanda direttamente allo sfruttamento da parte della finanza delle aree industriali dismesse: come queste furono oggetto di operazioni sempre più raffinate, procedendo dalla gestione del territorio in modo mafioso per giungere alle speculazioni finanziarie sui mutui che le gravano. Parimenti, il corpo operaio dismesso, sviò la propria autovalorizzazione.La limitazione conseguente all’assoggettamento alla costituzione dell’impresa, però rende tale lavoro immediatamente produttivo di valore catturabile (e catturato) dal capitale. Da qui, due prime riflessioni:– esiste una costituzione materiale che si può ravvisare nello statuto dell’impresa che annega, nella captazione di valore e nella negazione della vita, la produzione del comune;
– la creazione di ricchezza consegue alla precarizzazione e all’indebitamento dell’uomo impresa.
Le modalità concrete di sfruttamento della vita messa al lavoro impediscono (sono funzionali ad evitare che) la configurazione di istituzioni del comune.Non pare quindi possibile la realizzazione del comune attraverso il recupero di norme (di legge o “consuetudinarie”) che risultano poste proprio al fine dell’assoggettamento della produzione alla legge del valore.Porsi all’interno di un sistema normativo che presuppone l’esistenza di merci e funzionale allo scambio tra proprietari (meglio tra creditori e debitori) comporta l’immediato reciproco riconoscimento, all’interno proprio di quella legge del valore che opprime il comune.Ogni stratagemma che riveli capacità di sottrazione dal rapporto di capitale mediante l’attualizzazione dell’autonomia potenziale della forza lavoro va accolto per procedere verso tale orizzonte.Strutturare l’antagonismo del precariato (imprenditore del proprio nulla) verso la disponibilità degli strumenti “d’impresa” e delle relative norme che li disciplinano appare unica via verso questa transizione (che peraltro, proprio per la configurazione delle modalità attuale di sfruttamento appare già in atto).Predicare il diritto all’insolvenza, l’ammissione ai benefici delle procedure concorsuali anche per i microimprenditori, imporre moratorie sul debito di studenti e precari, è da un lato comprensione della produzione diretta di ricchezza da parte delle singolarità, dall’altro -consentendo autonomia e autovalorizzazione delle stesse- mina il procedimento appropriativo e di riconducibilità della vita al capitale e con esso lo stesso statuto dell’impresa.La ributtante negazione di sé che fu il farsi impresa non è stata rinuncia al desiderio, ma escamotage di sopravvivenza che l’operaio indusse al capitale e non viceversa (pur nello sviamento della potenza operaia).Attraverso questo mezzo persiste (e si impone) la capacità della moltitudine, fondata sul comune, di eccedere i limiti del potere.”[paragrafi estrapolati da http://www.uninomade.org/quale-costituzione-per-luomo-indebitato/, 10.2012]
Questo immaginario non mostrava già il limite materiale in cui il precariato si riconosceva?
Entro cui la rivendicazione insolvente si protendeva come uno sbrocco professionale,
ossia l’unico sbocco di una sopravvivenza dipesa dai blocchi infrastrutturali.
E dove sarebbero i frutti di questa ricerca di post-autonomia
pienamente inscritta nelle prescrizioni culturali di bilanci amministrativi?
Quali gli strumenti di un precario faber,
quali i leit motiv di un precario sapiens,
quali i sogni sottratti al pozzo di un curriculum vitae?
Quali i segni dell’abbozzarsi di un qualche soggetto sociale,
quasi quasi new-proto-rivoluzionario, ma soprattutto anche no?
°
Lo stesso portale uninomade, “movimentatosi” nella crisi delle specializzazioni disciplinari di area umanistica, non si è in fondo dimostrato propriamente un riferimento di poi tanta contestazione degli strumento del lavoro intellettuale, per dire.
Sarà perchè i ruoli istituzionali stessi non vengono nemmeno, ancora, messi in discussione?
Allora diciamolo chiaro.
Data la rinnovata spoliazione dei fasti d’accademia e dai privilegi della ricerca, cosa ci sarebbe potuto essere di emancipativo nel prendersi il caffé progettando di rientrare nel mercato culturale dalla porta sul retro, per giunta come se si trattasse d’insubordinazione?
E quali sarebbero i margini d’autonomia nel fare ciò, se mentre ci si aggrappa all’indignazione e si paventa stupore proprio là dove il liberismo aveva già ampiamente pavimentato le stanze della cultura contemporanea con fissativi di turistificazione e smalti gentry targeting, non si riconosce quanto il proprio futuro resti proiettato entro quegli stessi modelli?
L’autonomia, quella operaista, in Italia, anche da queste sue eredità nepotili e terziarie, confermava di scommettere sulla fideizzazione alla logica sistemica in un’astrazione per la verità troppo più lenta a rendere conto di sé rispetto all’accelarazione dei processi produttivi, tanto che mi pare nessuna autonomia sia mai stata ambita dalla sua propaganda per ciò che l’etimo della parola intenderebbe, di fatto.
Tantomeno entro simili interpretazioni della crisi finanziaria, valutata come incombere dell’incubo dell’austerità, da cui il risveglio di quelle coscienze che si scoprono soporizzate fin dagli standard dei test attitudinali e ingannate dalla baronia che ne seleziona messali, poteva soltanto, a quanto sembrava ripensarsi come necessità di ogni singolx di “essere impresa” da sé e per sé.
O meglio, non soltanto lo poteva, ma per giunta(!), illudendosi, questa pseudo-coscienza riscoperta, che l’atomizzazione subita, la devastazione sociale entro cui questa mantiene chiuso il circolo del precariato, consistesse allo stesso tempo in “escamotage” sulla via di una novella “istituzione comune”… Ma “comune” in che senso, scusassero?
Tutto ciò, nella lotta contro la crisi, si è configurato a mo’ di paradosso integrativo di una grave carenza non già di finanziamenti, ma di conflitto.
Pregno di realpolitik, questo filone polemico stava solo cercando di ritrovare un valore per gli assegni nulli incassati dalla propria proprietà intellettuale.
Non poteva essere avulso dall’appoggio al riformismo,
né rinunciare, così devoto, alla beneficienza partitica..
Perciò, lo si può ben lasciare sulle false barricate.
play it yourself *Jolie Jolly *
***
Ho ripreso a giocare, a giocarmi, a rischiare!
A concedermi di cambiare, che sia in meglio, di male in peggio, o soltanto una variabile
infinitesimale, a volte non so nemmeno io che… ma lascio
a voi l’ardua sentenza, che tanto proseguo,
guai a chi mi trattiene, scommetto tutto su di me!
Non posso attendere mosse che non mi appartengono,
sottostare alla regola fissa, addomesticarmi ad una noiosa partita!
Non sarò poi nata con tutti questi colori, quante sono le mie emozioni,
per appiattirmi nella dipendenza da che qualcosa accada senza
che io possa scegliere di parteciparvi.. o meno!
È tempo per me di saltare oltre la soglia,
nel mondo che mi sembrava negato.
Né delicata bambolina, né burattino, né pedina,
ho imparato a riprendermi i miei attimi quando più mi va!
Si spezzino pure, i fili delle vostre meccaniche manipolazioni!
Sia sincero il pubblico che mi scruta bieco,
con disapprovazione mentre salto in aria
via dal palcoscenico e riscrivo con la dinamite la mia storia:
quanto conta davvero, signore e signori, che io svolga per voi un copione tanto ridotto?
E cosa realizzo del mio io profondo, quando mi vedevo assegnare
una funzione, valore, un punteggio, secondo arbitrari schemi
di competizione? ..Non sarò parentesi tendente allo zero!
Neppure esser trattata da carta vincente, come da consorte regina, serve
a ritrovare un personale, insito, splendore! Rifiuto servigi come di essere serva.
Sono ormai sganciata da queste strategie di simulazione,
non c’è modo di incatenarmi. Né serbo di rimediare
in mio nome ai vostri fallimenti, ancor più furia mi assale!
Corona o cencio mi si voglia affibbiare, c’è sempre ben altro
da sfoggiare, non certo qualche pretestuoso giudizio esteriore e venale!
Non sono mica qui per riconoscere licenza ai vostri succesi, dare corpo a ricatti,
non prona a suggellare con la mia firma un’astratta quota del vostro potere!
E levatevi quelle smorfie esterefatte, suvvia, ho appena iniziato con le presentazioni!
Avverto, non sprecherò il fiato che mi rimane nella rassicurazione di questa tesa fissità in cui vi ho conosciuti.. E in cui vi lascio.
Quando ho sospirato, come ogni essere, per le mie sofferenze,
mi si rispondeva di non avere fretta, di abbassare la testa o di reprimere le troppe curiosità..
E dovrei oggi rasserenare chi sarebbe pronto a gettarmi se questo valesse la sua fortuna?
Non è affar mio, rappresentare la vostra consolazione, né il rendermi un ridicolo sfogo per le vostre mancanze.
Su cosa si punta, in questo piattume?
Che ogni carta rilanci se stessa!
Basta formalità, inchini, applausi, proposte sconvenienti!
Sono stufa di chiudere gli occhi e stringere i denti!
Se è vero che mi toccano sacrifici che non ho scelto,
posso dire che l’obbligo maggior per una società sana non venga mai da lor signor richiesto:
dedicarsi all’ascolto del proprio umore, del proprio sentore.
Mi riapproprio, perciò, del mio corpo disciplinato, privato dell’indipendenza e fatto strumento.
Il rincorrersi dei miei desideri, soltanto,
detterà le regole delle mie giornate!
A quale gioia dovrei rinunciare, dal momento che non potete impedirmi di immaginarla dentro di me?
E quant’è dolce già l’aspettativa di ognuna, che tra ansie e tentennamenti,
porta in gestazione tutte le espressioni della vita che si rinnova? Voglio festeggiarla!
Abbracciando armonie portate dal vento respirando la terra divelta.
Non batto le strade, ma su quelle mi batto
come pelle di tamburo scalpello
rudi frammenti di pietra invecchiata.
E più incontro sofferenza meno faccio caso a quanto sia immensa,
perché immersa, mata nataraj, in un vuoto danzante,
non resta che un ferreo vagabondare
cui sorrido irriverente attraverso il confine, e ancora..
..un’altra cinta muraria che crolla.
Ho scoperto che le qualità non hanno definizione, assegnazione, valore,
ma fioritura. Non “mie” o “sue”, ma giustappunto comunicanti,
ho appreso a seminarle sparse, fuori da ristrette corti,
nei modi di una questua per un’ambulante.
Ho cominciato a pescare ricordi e attese per allenare l’equilibrio
tra singhiozzi rappresi della ragione e cicliche palpitazioni dischiuse.
So finalmente osare, tuffarmi in capriole carpiate,
inarrestabile la mia rabbia, esonda le vostre sbarre,
circensi i miei dubbi, mai dimorato in precetti stringenti.
Itinerante il mio cuore, non più timorato, dischiusosi
tra compagnie di ventura, cullandomi in vortici elastici
e ad uno schiocco di dita definendo il mio orizzonte
all’equilibrio di un trapezio issato su di un precipizio.
Interrogo la mia luna quando la notte si fa piu’ scura..
Vado assemblando note, accordi ricuciti,
un sapere a sonagli, non innoquo perché sinuoso,
che sappia cogliere ogni istante che sussurri libertà.
multiverso.
* Jolie Jolly *
HABITAT #akt1 [cuento punteado] ▲YaRosaNegrA▼
Superato il ponte sulla Dora mi ritrovo immersa in una distesa di scatole e scartoffie, qua e là qualche esile sgabello. Tracce ancora manifeste, come ostinate, sparpagliate lungo le diramazioni pedonali, incrostate ma la cui toponomastica sembra indelebile, dalla storia che ha memoria di sé nei segnali rivendicativi che colorano cigli e saracinesche. Percorsi che…
JIN JIYAN AZADI
Solidarietà alle ribelli della montagna..
(grafica 2018 per la resistenza delle YPG cadute.)
Cittadinanze irregolari tra gli assiomi di mercato
“Mancano medicinali, siringhe e, in alcuni casi, a causa della mancanza di garze, i pochi addetti hanno dovuto far ricorso persino a della carta igienica per curare ferite”, dichiarano le stesse guardie, aggiungendo che spesso mancano anche i pasti e l’acqua calda, che ci sono blatte ovunque e larve di vermi nel latte, così come si registrano numerosi casi di scabbia, epatite e infezioni dovute alle condizioni in cui le persone sono costrette a vivere.
Non c’è spazio per posizioni differenti, nessun’entità formale che vi abbia messo piede può più negare che il centro di reclusione di Bari Palese, e altrettanto quello di Brindisi Restinco, versi in condizioni pietose. Che quella struttura punitiva, messa a punto dal governo —- per il trasferimento di coloro che in altri centri di detenzione non si sono lasciati ridurre alla prigionia senza ribellarsi, sia di fatto amministrata come un lager fascista.
Nessuna voce delle persone recluse esce da quelle mura, nessun momento di solidarietà ha attivato una comunicazione volta a combattere l’isolamento.
Eppure nel lager di Bari Palese, da sempre considerato una struttura punitiva dove lo stato trasferisce chi lotta in altri centri, che le persone recluse si ribellano frequentemente, danneggiando e provando a evadere.[dal più recente episodio di rivolta nei CPR riportato su https://hurriya.noblogs.org/…/bari-tentata-evasione-dal-cpr/]
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Ieri era l’anniversario di un episodio nel CPT di Trapani, 28 dicembre 1999, in cui morirono 6 persone in un incendio appiccato da una di loro nella cella in cui erano state rinchiuse dopo un tentativo di fuga, cella che non venne deliberatamente aperta dalle guardie di turno, preferendo che divampassero le fiamme sui reclusi piuttosto che il loro tentativo di rivolta avesse qualche esito, “naturalmente” inammissibile per il loro dovere istituzionale.
Una volta che l’esistenza di una persona viene convenzionalmente misconosciuta, sembra decada in automatico la responsabilità di coloro che concorrono alla sua esclusione sociale, dalla negazione dei suoi diritti e della sua dignità di essere senziente alla privazione forzata dei bisogni essenziali alla sua sopravvivenza.
Spingendo ad oltranza l’incunearsi della mentalità del respingimento e la reazione di distacco dalla sofferenza umana e dal dispendio di energie che produce, quanto più quella responsabilità si rende cieca esecutrice della giustizia amministrativa, tanto più perde cognizione del proprio impatto in quanto demandato all’infinito a qualche posizionamento superiore o astratto, meno peso diretto può attribuirsi.
Mentre rifiutate concessioni di umanità di un essere umano perchè non sta scritto sul vostro contratto di lavoro, state misconoscendo per primo la vostra, di umanità. Forse l’avete semplicemente già venduta.
Come potreste allora curarvi di una persona che non può, nemmeno volendo, conformarsi alla vendita di sé per un ritorno economico?
L’identità è una forma primitiva di demarcazione; prima ancora che il merito era presupposto del rivestimento di un ruolo, quindi di un potere, anche qualora fosse un potere soggiogato a determinate regole. Perchè sia possibile un riconoscimento reciproco tra identità socialmente differenti sembra che non si possa fare a meno, convenzionalmente, di affermare uno scambio materiale, di commutare l’essenza in onere lavorativo e potere d’aquisto, o ridurre la cultura a storia delle gesta della propria nazione.
Se all’identità si restituisse un significato esistenziale profondo sarebbero ancora così sensati i tentativi di afferrarla con le impronte o tracciarla geolocalmente, per poi racchiuderla in database amministrativi? Prima del contrattualismo, prima delle anagrafi, prima dei codici, c’è il desiderio delle persone di stare insieme e interagire. Le leggi restrittive rappresentano l’incapacità delle istituzioni di assolvere a un mandato dell’ordinamento politico che anziche comprendere in sé la dinamicità dell’esistente, fissa dei livelli di potere. Lasciarci schiacciare e schiacciare altri attraverso di esse non è solo ben poco umano, è distopico.
A quali mete può approdare una società attraverso la mutilazione degli elementi con cui si rapporta, volente o nolente, e a cui è protesa, sia che li rifiuti sia che li comprenda?
La dislocazione e l’alienazione delle frange di popolazione che “non rendono”, “non sono funzionali” o “non possono accedere” alla pianificazione dello sviluppo economico, questi dettami sempre in auge dell’ordine civile centralizzatore, contro il degrado e per la sicurezza, non servono che a specifiche strategie reazionarie. Queste non portano ad assicurare l’ordine, ma a creare bacini servili, tanto di contribuenti quanto di utenti, vite strumentali alla realizzazione di una prosperità finanziaria tutta tesa a sedare qualsiasi sprone indirizzato all’indipendenza da essa, e che per ingraziarsi il malcontento non ha altro bisogno che di giustificare la propria corruttibilità puntando il dito contro la piccola criminalità.
A chi pensa che la ribellione violenta sia atto di inciviltà io rispondo che il più profondo aspetto di inciviltà è lo sbocco penitenziario della legge, oltre alla sua inevitabile predisposizione all’uso improprio che se ne fa, facilitando l’oppressione di chi non detiene potere sulle proprie condizioni di vita. E chi non ha potere, come può essere giudicato violento, se non contro se stesso, o al fine di una fuoriuscita dal suo stato di minorità?
Quando si sa di non essere nati per essere trattati come oggetti senza valore d’uso, smistati senza riguardo ed immagazzinati per mesi, ritirati dal mercato se giudicati non conformi, la propria dignità non troverebbe ristoro nemmeno nel sostare in un carcere “servito” e godere di inserimento in liste di attesa per la casa e per un’occupazione base.
Si provi a immaginare un momento in cui si voglia ricostruire la propria vita, o proseguirla seguendo una traccia di chi ci è riuscito, ma lo spazio per una possibile ricostruzione e riproposizione di sé viene ricondotto ad una cella ed a elenchi standardizzati.
Possiamo mangiare quello che ci viene offerto, lo scarto del guadagno di chi ce lo offre, ma non cercare da noi il cibo che ci basti. La propria voce viene ammutolita. Se ci proviamo a muovere, riceviamo colpi che ci annichiliscono.
Ogni daspo, ogni decreto o limitazione alla libertà di movimento, ribadendo la proprietà del benessere dei propri cittadini, la paternità dei propri confini, proprio stringendosi su concetti tradizionali del potere amministrativo, rivela il fallimento intrinseco delle misure di controllo in atto e la loro subalternità a determinazioni economiche transnazionali.
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CHIAVI FINANZIARIE DELLA DETENZIONE AMMINISTRATIVA
L’inasprimento di una nazione contro movimenti migratori della cui diffusione ha responsabilità finanziarie e politiche che si protraggono da oltre un secolo attraverso una coltre di asseverazione psicologica della propria cittadinanza ed un conformismo di questa alle novità del mercato, è funzionale quanto potrebbero esserlo delle valanghe lanciate dall’alto di un picco di interesse relativo, per la facilitazione di pochi, specifici, obiettivi, che per mantenersi stabili richiedono un rastrellamento della complessità sociale a valle, delle sue potenzialità. Ogni passo di quest’ultima per l’autodeterminazione costituisce un’ombra di rischio di perdita dell’aura di quei piccoli orchi che giocano a lanciare neve al sole dal parlamento.
Così, mentre “i nostri” ministri e promotori del made in italy collaborano con governi repressivi africani e mediorientali (e questa sì che è una componente razionale e marcatamente progressista del loro posizionamento verticista in collaborazione con imam del business di materie prime e con l’accelerazionismo capitalista cinese, posizionamento che trova in città come Dubai e Shenzen il coronamento “già qui” delle proprie ambizioni ad un potere meccatronico e ultramiliardiario), si può dedicare la propria disperazione agli attentati avvenuti nei nostri luoghi di svago compiuti da cellule terroristiche formatesi nelle nostre prigioni, e insieme sentirsi risoluti ad attribuire questa pericolosità ideologica, che è poi piuttosto randomica, alla tendenza criminale di “stranieri” che si fanno rivoltosi cercando di interrompere una prassi sistemica che li sottopone a condizioni insane di sussistenza, a un controllo cronometrico dell’aria che possono respirare e alla cessione delle proprie capacità di integrazione a uffici il cui personale, spersonalizzato, non oserebbe nemmeno discutere della propria passività in questa filiera di certificazione di uomini.
#CPR #capitale umano #flussi mercantili
Le scommesse per lo sviluppo del Sudan verso il 40°anno del regime Al-Bashir
È sempre più evidente, negli ultimi anni, come il completo disimpegno dello Stato sudanese per le proprie aree rurali, storicamente e ripetutamente colpite da siccità e carestie, ed il coincidente interesse imprenditoriale allo sviluppo della capitale Khartoum come “nuovo svincolo commerciale”, siano stati i più concreti fattori di disorganizzazione infrastrutturale (dai servizi di base ai disincentivi per la piccola imprenditoria) e di discordia civile, spingendo all’insorgere di gruppi di ribellione e indipendentisti, concentratisi nel Sud del Sudan e nel Darfur. Fatto non noto è che l’accesso alle risorse primarie del territorio sia stato determinato da un disinteresse per la fertilizzazione delle terre aride, e da una conseguente sperequazione distributiva di beni e nuovi mezzi di sussistenza tra aree abitate, già nel sistema coloniale del Regno Unito: solo una pubblicazione universitaria (NewYork, 1987) ci riporta che di tutti i 1169 progetti agricoli inglesi sorti dal 1955 in Sudan, nessuno interessò il Darfur (regione grande quanto la Francia). Non mi sembra azzardato suggerire che la desertificazione che ha contrassegnato quell’area, in particolare negli anni ’80, sia dipesa da una specifica relegazione di questa all’ambito meramente estrattivo.
Le connotazioni etniche delle rivendicazioni sociali cui si attribuiscono le cause degli ultimi 40 anni di rivolgimenti intestini, invece, sorgono ben più specificatamente da differenze modali di radicamento/presenza sul territorio: l’avversione tra comunità nomadi e lcomunità stanziali, la loro distanza negli usi, costumi e di prospettive, è servita poi alle strategie di governo come pretesto per affilare il contrasto tra quelle e giungere ad impedire una qualsiasi convivenza tra etnie, finanche questa fosse ghettizzata tra campi profughi e spazi di controllo armato, rendendo estremamente e drammaticamente faticoso il percorso di resistenza alla sua dittatura, resistenza formalmente dichiarata quando alcuni ribelli organizzatisi per la liberazione del Sud tentarono azioni di sabotaggio contro l’esercito ufficiale del golpista Omar Bashir, autoproclamatosi presidente nel 1989 e già in precedenza Generale contro le truppe indipendentiste.
Sfruttando la ferocia di un gruppo di mercenari islamisti denominati janjaweed (“demoni a cavallo”) dal 2003 Al-Bashir caratterizzo la sua autorità politica con omicidi di massa fuori controllo che proseguono ancora oggi. Assicurando copertura paramilitare ai Janjaweed (confermata dal Tribunale dell’Aja) e propagandando in maniera autocelebrativa la fratellanza musulmana, macchiò il suo governo della responsabilità come mandante di rapimenti, stupri, assassinii e bombardamenti dell’aviazione nazionale sui villaggi (l’80%), oltre che di tagli all’accesso alimentare e sanitario per le crisi climatiche in Darfur.
Soltanto nel 2010 la Corte penale internazionale ammise la definizione di “genocidio”, accuse rigettate dalla stessa Unione Africana (..pur mandando i caschi bianchi..).
Si contavano 300.000 morti e 2.700.000 sfollati, per lo più donne e minori.
Per evitare semplificazioni ideologiche, è doveroso considerare che le tribù sudanesi sono circa 400, con forte commistione di credo religiosi. La matrice islamica è stata attribuita alle sole milizie non governative in maniera strumentale tanto dal regime sudanese (il quale, dichiaratamente ispirato alla Fratellanza Musulmana, applica la Shari’a) quanto dalla propaganda statunitense d’intervento umanitario. Pare, comunque, che il fondamentalismo religioso di Al-Bashir non gli abbia impedito di mettersi a disposizione dell’intelligence americana.
Si può dire che l’intervento Onu-Unione Africana di peacekeeping avviato nel 2007, la missione ‘UNAMID’, abbia fallito nel tentativo di condurre a un ridimensionamento del regime a direttive internazionali. Firmando il Trattato di pace impostogli dall’ONU, Al-Bashir accettò almeno di concedere un referendum nazionale che permise il riconoscimento dell’indipendenza del Sud Sudan, ma fu poi però in grado di raggirare la campagna che invocava il disarmo e la sua destituzione ricorrendo a brogli elettorali, nel 2010, che anzi gli permisero di attribuire una più solida legittimazione ed immunità alle proprie politiche e milizie. Mentre le truppe UNAMID furono dimezzate, infatti, l’indefinita schiera di assassini e predoni islamici detti janjaweed venne così riorganizzata in veste formale come Rapid Support Forces. Da che godettero di ufficialità governativa, le RSF vennero presto dispiegate per il controllo del confine con la Libia, essendo Al-Bashir molto affine e collaborativo nei confronti di Gheddafi.
Come accennato, i campi profughi non sono mai stati al sicuro. Varie sono le testimonianze, negli anni, di come militari e paramilitari del governo abbiano aperto il fuoco anche all’interno delle aree civili protette all’Est ed a Sud del paese. Il dimezzamento del contingente Unamid nel 2010 sembra essere dipeso molto, oltre che per i costi elevati di finanziamento, proprio dal riscontro di una sua inefficacia, sotto più frangenti, nella difesa della popolazione.
Anche gli aiuti umanitari, nell’arco di 15 anni, sono diminuiti: solo l’anno scorso, 2017, il World Food Programme ha licenziato buona parte del personale sudanese lasciando in difficoltà sia le corrispettive famiglie che circa 8.000 persone che poggiavano sull’assistenza alimentare.
La repressione di ribelli e civili, durante almeno il primo decennio, ha poggiato sull’aiuto della Cina per i rifornimenti militari: il Sudan vi si è indebitato per 25 Miliardi, offrendole in cambio 2/3 del proprio oro nero. I giacimenti non ceduti ai cinesi sono di proprietà della Total (FR). Oltre a pozzi petroliferi e di gas, nel Darfur si trovano tra i maggior giacimenti al mondo di uranio e rame, nonché 2/3 della produzione totale di gomma arabica (proprietà Coke/Pepsi).
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Nel 2015 l’Ue e l’Unione Africana al vertice de La Valletta definirono un piano afferente al ‘processo di Khankoun’ di “lotta alle cause della migrazione irregolare, protezione e asilo, migrazione legale, lotta alla tratta e al traffico di esseri umani, ritorno e reintegrazione”; avvalendosi di un “fondo fiduciario d’emergenza” (EUTF) del quale l’Italia è stato il maggior contribuente (102 milioni di euro).
“I progetti vengono realizzati da organizzazioni internazionali e agenzie per lo sviluppo degli Stati membri in collaborazione con organizzazioni non governative locali e sotto la coordinazione dei rispettivi Governi, che però non ricevono finanziamenti diretti”, secondo le linee del piano. Per tanto non fa scalpore che l’80% delle risorse del fondo provenisse dal Fondo Europeo per lo Sviluppo (FES) e un altro 15% dalle casse per la Cooperazione allo sviluppo (Devco), le politiche di vicinato (DG Near) e di affari inteni (DG Home). L’idea di sviluppo locale, sia nei programmi di attuazione concreta del piano che dalle discussioni stesse dei parlamentari europei, comincia e finisce con l’obiettivo contenitivo dei flussi migratori. Sembra che la violenza estrema di alcuni regimi possa essere risolta con l’incentivo alla “capacity building”. E ancora una volta si vuole eludere che le più grandi potenze mondiali (quelle che per l’Eu sono partner, quando non componenti interne) abbiano avuto impatti drammatici su quei territori senza ammissioni di responsabilità.
Non si capisce come il processo di Khankoun intenda declinare il piano di “sostegno politico” nei confronti dei rappresentanti di dittature africane, se ogni istanza indipendente dai regimi viene fatta tacere con carcere (soprattutto in Etiopia) od omicidi di massa.
Le istituzioni internazionali di competenza, mentre proclamano retoricamente la “difesa del diritto d’asilo”, continuano a suggerire e incentivare ancora o la segregazione dei profughi od un loro paradossale rimpatrio.
Nel luglio 2016 l’Eu propose di stanziare al governo sudanese 100 milioni per fermare le fughe di profughi da paesi del Corno d’Africa (Somalia, Eritrea, Sudan, Etiopia: tutti paesi in stato di guerra) specificando di voler incentivare la capacità di sorveglianza delle truppe sudanesi (veicoli ed equipaggiamento, pure le divise..). Il mese stesso oltre 500 migranti sono stati presi dalle RSF e chissà quanti altri ancora, senza possibilità di reclamare alcun diritto, né senza controllo dell’UNAMID su questo genere di operazioni di polizia in quanto eseguite, a quel punto, con il consenso (o meglio l’indicazione con mazzetta) delle autorità europee. Il segretario del Sudan People Liberation Movement ed alcuni ambasciatori ONU già dopo pochi mesi denunciarono ad African Express indiscrezioni sui finanziamenti arrivati alle RSF dalla Germania e il “supporto logistico” fornito loro dall’Italia. Membri della Commissione europea per lo Sviluppo e della Sottocommissione per i Diritti umani hanno perciò richiesto di aprire un’inchiesta.
A Ventimiglia, quell’estate, anche i capi di polizia Italia-Sudan si accordarono per il rimpatrio forzato di 48 richiedenti asilo appena sbarcati. Il ricorso presentato prontamente da alcuni di loro ha ottenuto il dovuto riscontro dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, anche in termini di “violazione di diverse norme della Convenzione di Ginevra” da parte delle autorità di polizia F.Gabrielli e H.O.Hussein.
Ma la collaborazione italiana con le istituzioni di Kanthoun per il rafforzamento delle frontiere non è certo sporadica. Risale al 2006, infatti, l’insediamento di delegati e operatori che Cooperazione italiana attraverso strutture-pilota (MRRC) presentatesi alla visita dei delegati UNCHR come centri di ascolto, consulenza legale, counseling psicologico, assistenza medica di base e indirizzamento verso la migrazione legale.
Nel 2014, sancendo già un importante punto di accordo con l’Europa, il Sudan promulgò una legge che punisce la tratta di persone con 20 anni di reclusione, minaccia penalista che ha costituito un deterrente minimo e marginale, visto il grado di corruzione, e costituisce soltanto unulteriore impedimento della popolazione alla fuga da una situazione di tragica instabilità.
Italia ed Eu, nel tentativo di esternalizzare i propri confini, anziché risolvere il problema della tratta dei migranti hanno finito per promuoverne la ‘messa a norma’, per di più affidandone la gestione agli stessi mercenari che hanno fatto carriera in governi repressivi. Pensare che sia conveniente affidare il compito di trattenere migranti o respingerli (molti scappano da Etiopia ed Eritrea) a milizie che hanno trucidato per anni ribelli e spazzato via villaggi interi significa non solo affidarvisi ingenuamente, ma compromettersi con mandanti e garanti di esecuzioni criminali. Allontanando dal Mediterraneo l’onere dell’applicazione della giustizia, chi necessita asilo rimane ancor più soltanto un’eco dispersa nel deserto sahariano. Si presume che in Libia siano recentemente stati bloccati oltre 150.000 profughi originari del Corno d’Africa.
A dimostrare la vanità di questo tipo di accordi intergovernativi, nella prima metà del 2016, 250 civili sudanesi sono morti e altri 6 milioni sono stati ricoverati d’urgenza per gravissime ustioni e lesioni corporee provocate da armi chimiche utilizzate dall’esercito di Bashir: 30 raid su circa 170 villaggi in cui, secondo le ong, “non vi erano ribelli armati”. Alcuni sono scappati sui monti, altri sono stati portati nei campi profughi, da sommare ai 2 milioni e mezzo degli ultimi anni.
Tuttavia i finanziamenti EU al Sudan non sono stati sospesi, anzi. Assecondando le pressioni di Ghandour sul finire del 2016, pochi mesi dopo la cifra salì a 215 milioni di euro, assicurandone la destinazione di “supporto umanitario”. Ghandour aveva insistito anche per ottenere la revoca delle sanzioni Usa. Mentre la Germania non nasconde affatto il suo contributo ai corpi di polizia di Al-Bashid. Un delegato ufficiale tedesco a Berlino ha recentemente dichiarato che questa “cooperazione è iniziata da 10 anni”. Ne vanno fieri, insomma.
Addirittura il portavoce dell’Organizzazione internazionale per la migrazione (Oim) Lobasso ripone totale fiducia nelle collaborazioni intraprese con la polizia sudanese, difendendo l’intesa firmata Gabrielli-Hussein nell’agosto precedente (e già messa a reato) come importante atto di intelligence per l’identificazione di irregolari e della tratta. Identifica il flusso migratorio come un probema che impedisce lo sviluppo del Sudan anziché conseguenza di contingenze politiche innescatesi con atroce violenza su fattori climatici già drastici e mai curati. Al contempo, Lobasso prende parossisticamente le distanze dalle accuse di violazione dei diritti ricordando che secondo i piani europei “non c’è aiuto diretto al governo”… Come se le forze dell’ordine di cui si parla fossero disgiunte da un regime che le incita a repressione armata e persecuzione etnica da 39 anni!
Di fatto, l’Africa-Express ci informa che gli interventi legali sui migranti comportano frustate, pene pecuniarie e detenzione amministrativa in vista di processi e rimpatri forzati il cui esito drammatico si può ben immaginare. La legge contro la tratta non infierisce eccessivamente sui guadagni della polizia sudanese, che trae proventi multando i fuggitivi, in maggioranza eritrei ed etiopi. Oltre a ciò, il costo dei visti è aumentato. E il capo delle RSF Hametti ha già chiarito caldamente come il loro impegno nel controllo delle frontiere in Africa si poggi sul ricatto all’Europa di fondi monetari.
Non c’era bisogno di attendere l’indagine di Global Health Advocates (con riguardo alle destinazioni finanziarie in Niger e Senegal) sull’effettivo sbocco dello stanziamento dell’EU Trust Fund per capire che a Brussel non interessa la cooperazione allo sviluppo, quanto piuttosto risolvere la nostra emergenza frontiere escludendo gli interventi delle Ong. Il Trust Fund si applica a progetti non duraturi, di cui non si conoscono i criteri di assegnazione e che non propongono una reale pianificazione di ripresa con i locali. Non c’è “nessun bando pubblico”, e molti interventi nelle aree bisognose di sostegno agro-alimentare, scolastico e sanitario, sono stati negati per preferire quelli sul controllo fisico delle migrazioni. Appare infatti che nel 2017 gli ingressi irregolari in Europa siano diminuiti del 63%. Anche Diverted Aid riporta dati di come gran parte di quel fondo sia stato assegnato ad Agenzie per la Sicurezza.
Si può dire che nel corso di alcuni attacchi ai campi le basi Unamid hanno fornito un supporto per lo meno passivo, come nel marzo 2014, quando circa mezzo migliaio di rifugiati è scappato dai roghi appiccati alle loro tende nel campo di Khor. Eppure un tale tipo di supporto, indiretto e non programmato, non ha nulla a che vedere con la “collaborazione tra governo sudanese e intelligence americana” per la lotta al terrorismo decantata dalla Casa Bianca di Obama ed ora Trump, che su questi fantomatici risultati diplomatici avrebbero deciso di interrompere le sanzioni al paese sul greggio, sottoposte al paese per 20 anni. Oltre il velo del terrorismo sul terrorismo, vi sarebbe in realtà un gioco di interessi ricamato da Israele e Arabia Saudita a cui gli USA si sarebbero prestati, tramite la revoca dell’embargo, per evitare l’avvicinamento finanziario e politico tra Sudan ed Iran.
Nel frattempo gli italiani, come si evince dalle parole del presidente di Confindustria-Assafrica G.Ottati, puntano a portare sempre più industriali italiani a Khankoun (!), tanto per infilare il dito nella piaga delle discrepanze di sviluppo tra la capitale e aree in carestia ed offrire supporto tecnologico ad una dirigenza che ancora si fa spazio versando il sangue della popolazione, per rgioni di dissidenza ma anche puramente etniche. Ghandour offre così alla nostra classe imprenditoriale “l’opportunità di fare affari” in periodo di “pace” per arginare il crollo dei loro proventi in seguito alla perdita di controllo sui pozzi del Sud ed alle sanzioni americane.
La revoca di queste sanzioni era inoltre auspicata dall’asse Italia-Sudan nell’obiettivo di ripresa economica. Lobasso, a Roma per la terza Sudan Country Presentation (ogni due anni dal 2013), ha lodato la presidenza di Al-Bashir per aver dichiarato un cessate il fuoco di 6 mesi e la cessazione delle ostilità richiesta dall’Unione Africana, aprendo corridoi umanitari per Darfur e Nilo Blu e infine accettando parte dell’opposizione parlamentare nell’esecutivo. Insomma, tutto gli pare formalmente pronto per investire sul territorio e aumentare l’importazione di prodotti italiani. A riguardo, non potevano mancare incontri come quello tra Gentiloni e il ministro degli esteri sudanese Ghandour durante la sua visita all’Expo di Milano.
Nonostante questi ottimi pronostici nostrani, il 2018 è cominciato con una dichiarazione di guerra a propaganda jihadista da parte di Al-Bashir contro le proteste popolari per il carovita. Appellandosi all’ideologia dei Fratelli Musulmani, la latitanza di questo uomo di potere rispetto alla condanna della Corte Penale Internazionale è sconcertante, ma gli accordi italiani ed europei hanno instaurato con il suo governo non sono da meno.
Nel Darfur che affronta costantemente la carestia, 2 milioni e mezzo di profughi interni continuano a vivere nel terrore di subire assedi dagli apparati terroristici governativi. A ottobre 2017 le RSF hanno rapito e violentato una decina di ragazzine nella città di Kutum. Un mese dopo l’esercito sudaneseseha compiuto un altro attacco etnico nel campo profughi di Kalma, in cui tra 124.000 persone si riparava anche un’alta concentrazione di ribelli del Movimento di Liberazione del Sud. Anche se non è raro che i militari di Bashir sfruttino mandati logistici (rifornimento di munizioni, per esempio) come scusante ufficiale che permetta loro la penetrazione di zone protette e difacili stragi punitive, la missione Unamid dopo 10 anni di presenza sul territorio non pare in grado di evitarli né di voler reagire.
[1] Il “Processo di Khartoum” prevede che l’Eritrea riceva 300 milioni di euro dalla Commissione europea, oltre a somme minori, direttamente dal nostro governo, per progetti di sviluppo per ora non identificati. Già nel 2007 la Commissione europea aveva stanziato 122 milioni di euro di aiuti con l’obiettivo di stabilizzare l’area regionale che l’Eritrea contribuiva grandemente a destabilizzare (dando supporto agli Al Shabaab somali e interferendo nel processo di pace in Darfur). L’esperienza degli accordi stipulati dal governo Berlusconi con Gheddafi ci dice che il risultato fu quello di favorire la tratta, permettendo una migliore organizzazione grazie ai denari estorti ai migranti stessi per uscire vivi dai centri di detenzione, spacciati come campi di accoglienza. https://www.welfarenetwork.it/priorita-dell-europa-e-dell-italia-fermare-i-migranti-del-corno-d-africa-20150808/
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focus sul SUD SUDAN
La crisi in Darfur continua, eppure è proprio dal Sud Sudan di cui era stata proclamata l’indipendenza che molti scappano, costantemente, dallo scoppio della guerra civile nel 2013 a Juba. Makar, leader dell’opposizione, anche etnica, al neo-governo, schierando bande armate nella capitale per ottenere piena gestione dell’area petrolifera, ha portato alla fuga di molti tecnici cinesi. Il presidente Kiir ha avuto invece l’appoggio degli attivisti ugandesi che avevano sostenuto le battaglie per l’indipendenza, e della nuova alleanza nominata Sudan Revolutionary Front. Ciò bastò ad Al-Bashir per sentirsi nuovamente sotto minaccia; unì la strategia difensiva ad una nuova opportunità d’investimento nelle ricchezze petrolifere offrendo i tecnici sudanesi per la riattivazione gli impianti di estrazione e squadre militari di sicurezza. Negli anni a seguire gli eserciti del Sud, sia della presidenza che dell’opposizione, si sono resi responsabili di crimini di guerra stipendiati (roghi di minore e disabili, stupri e mutilazioni). Nel 2015 firmarono un’intesa di pace prontamente disillusa.
L’ONU, con 8,3 miliardi di dollari di budget per missioni nel paese, contava 13.000 caschi blu che tuttavia vennero spesso tacciati dalle Ong presenti di restare barricati nelle loro basi duranti gli attacchi subiti dai civili sia a Juba che nei campi profughi. Unicef riferì anche come oltre al rischio di malattie ed alle carenze primarie, 20.000 minori fossero stati forzatamente reclutati.
Alle organizzazioni umanitarie veniva impedito di intervenire per lo meno sull’urgenza alimentare, anch’essa grave (restavano privi di aiuti 4,8 milioni di persone) nonostante la dichiarazione di Kiir dello stato di carestia e la ripetuta promessa diplomatica di garantirne il libero accesso. Anzi, con il crollo del prezzo del greggio, il Sud Sudan tassò ogni categoria di lavoratore straniero, compresi quelli di Ong come MSF, INTERSOS, AVSI, CUAMM. Dai 100$ pagati in precedenza precedenti, si passò a 10.000$ annui per ogni professionista.
Fino a 5 anni fa l’UNHCR riveriva di mezzo Milione di sfollati dal Sud Sudan negli vicini stati dell’Uganda, d’Etiopia, e della Repubblica Democratica del Congo. Naturalmente tutt’oggi non viene “compreso” dalle autorità europee che queste persone, anche una volta riuscite ad allontanarsi dallo stato di assedio, tendenziosamente non godono di diritti, di cittadinanza, di potere economico tale da poter acquistare visti e passaporti o riscattarsi in terra straniera.
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[utlimo aggiornamento: febbraio 2018]
Elenco dei brevi articoli che ho messo a confronto per dare un’idea del tipo di regime statale sudanese e dei rapporti tra questo e l’Unione Europea e come siano recentemente recepiti dai media:
https://www.un.org/press/en/2005/sc8351.doc.htm
https://it.wikipedia.org/wiki/Seconda_guerra_civile_in_Sudan
https://it.wikipedia.org/wiki/Omar_Hasan_Ahmad_al-Bashir
http://www.nigrizia.it/notizia/la-strategia-di-bashir-a-juba
http://www.michaelvittori.it/storia/guerra-in-darfur/
http://www.conflittidimenticati.it/conflitti_dimenticati/conflitti_nel_mondo/00004586_Sud_Sudan.html
https://www.infoafrica.it/2014/06/20/darfur-cpi-critica-inazione-consiglio-di-sicurezza-onu/
http://www.corrieredellemigrazioni.it/2015/03/24/processo-di-khartoum-sapete-cose/
http://dbflorindo.blogspot.com/2015/05/sud-sudan-i-ribelli-attaccano-i-pozzi.html
http://www.lettera43.it/it/articoli/politica/2016/07/13/sud-sudan-la-crisi-in-5-punti/199242/
https://www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2016/08/19/news/sud_sudan-146249767/
https://www.sem.admin.ch/sem/it/home/internationales/internat-zusarbeit/multilateral/regio-migdialoge/karthum-prozess.html
https://euobserver.com/migration/134215 (EU funds for Sudan may worsen fate of refugees)
https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2016/10/accordo-polizia-Italia-Sudan_rev.pdf
http://www.sudantribune.com/spip.php?article60551
http://openmigration.org/analisi/come-viene-usato-il-fondo-fiduciario-per-lafrica/
http://www.rainews.it/dl/rainews/media/Sudan-Darfur-4b102e9f-9739-48a7-8ae8-8b8cbc84789b.html
http://dbflorindo.blogspot.com/2017/02/sud-sudan-sarebbero-17000-i-bambini.html
http://www.corriere.it/esteri/17_febbraio_22/armi-chimiche-civili-darfur-prove-contro-militari-sudanesi-db27fb78-f915-11e6-ae6b-f2dcdeebb2b6.shtml
http://www.fabionews.info/View.php?id=20775 (Libia Mercato di schiavi. Sudan il tragitto della morte)
https://euobserver.com/migration/137489
http://sicurezzainternazionale.luiss.it/2018/07/13/sudan-esteso-cessate-fuoco-ribelli-dicembre-2018/
https://www.osservatoriodiritti.it/2017/09/25/cooperazione-allo-sviluppo-unione-europea-africa/
https://www.lindro.it/sudan-via-le-sanzioni-degli-usa/
https://www.internazionale.it/bloc-notes/annalisa-camilli/2018/01/11/sudan-respingimenti-migranti
http://www.sudantribune.com/spip.php?article64827
https://www.vuetel.com/giovanni-ottati-incontra-il-ministro-degli-esteri-ghandour/
http://www.askanews.it/esteri/2018/02/08/sudan-ministro-degli-esteri-aziende-italiane-interessate-a-investire-pn_20180208_00071/